di LUCIO SCUDIERO per Il Foglio –
Facebook affina le armi contro il revenge porn, con la collaborazione delle vittime. In Australia sta per iniziare un progetto pilota che coinvolge la multinazionale statunitense e una locale agenzia del governo preposta alla sicurezza in rete. I dettagli dell’iniziativa, ultima di una serie già intraprese da Menlo Park a tutela delle vittime di abusi on line, sono descritti qui. La novità di rilievo è che Facebook chiederà alle vittime di caricare sulla piattaforma gli originali del nudo fatto indebitamente o illecitamente circolare da altri, con l’obiettivo di “hasharlo”, cioè di renderlo automaticamente leggibile dall’intelligenza artificiale del social network che sarà così in grado di rintracciare e rimuovere tutte le copie di quella foto che circolano al suo interno.
L’iniziativa sembra un tentativo di risposta efficace al problema della lentezza del diritto nel rispondere a condotte offensive che invece si realizzano velocemente, proprio grazie ai social. Ma pone dei quesiti, che sottendono dei rischi, i quali a loro volta necessitano di risposte sia tecniche che giuridiche. Facebook è un social network nel cui modello di business permane un forte e legittimo orientamento al trattamento per fini commerciali dei dati e delle informazioni che vi circolano; la costituzione di un database contenente immagini di nudo volontariamente fornite da vittime di abusi deve necessariamente sfuggire a questa ordinaria amministrazione, se così si può dire. A questo proposito non sembrerebbe sproporzionato richiedere alla società, a fronte dell’importante ruolo giocato nella difesa dei più deboli dagli abusi, una serie di garanzie tecniche e organizzative ulteriori. Per esempio attraverso la separazione funzionale dei database contenenti i nudi da tutti gli altri dati, il tracciamento informatico delle attività degli analisti assegnati a ciascun caso, in modo tale da poter sempre ricostruire il loro operato, l’attribuzione alle vittime della possibilità di chiedere, più o meno come in aeroporto, di vedere il proprio caso trattato da funzionari (nel caso di Facebook, analisti) dello stesso sesso, oppure di chiedere il blocco del trattamento automatizzato delle immagini e l’intervento di una persona, in ogni momento. Si tratterebbe, insomma, dell’applicazione a questa iniziativa del principio di “privacy by design e by default” che ispira la disciplina europea a protezione dei dati personali, oggi sempre più centrale. Si tratta di dettagli oggi ancora non noti del progetto di Facebook, ma che certamente non sfuggono al colosso americano che ha inventato un mondo a sé dentro il world wide web.
Quanto poi Facebook vada ritenuta legittimata a intraprendere azioni di tutela e repressione criminale tipicamente appannaggio dei pubblici poteri, rimane un tema sullo sfondo. Al riguardo va registrata la tendenza dei legislatori – probabilmente inevitabile – a delegare a soggetti privati un crescente numero di poteri, per evitare che nelle more dello “stato di diritto” – che ha i suoi tempi – qualcuno si faccia male, come dimostrano purtroppo i tanti casi di vittime da abusi online. E’ quanto accaduto anche in Italia con l’approvazione della legge 71 del 2017 contro il cosiddetto cyberbullismo, che affida ai gestori di siti internet (privati) e al Garante della privacy (un’autorità amministrativa indipendente, non giudiziaria) il compito di vagliare ed eseguire in termini brevi le richieste degli utenti minorenni che denunciano atti di cyberbullismo, oscurando, rimuovendo o bloccando quei dati personali lesivi della loro dignità. Una normativa che però non protegge gli adulti. E se il progetto “pilota” australiano funzionerà, come è auspicabile, con estensione dello stesso anche all’Europa, potrebbe porsi al nostro paese la necessità di colmare il vuoto normativo, scrivendo un nuovo capitolo del già complesso rapporto tra “codice” tecnico e “codici” del diritto, perché sarebbe solo l’ennesimo caso in cui è l’evoluzione tecnica a influenzare quella del diritto, e non viceversa.
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